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Germogli di grano per i Sepolcri. La tradizione nel Cilento che viene da lontano

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Durante il Giovedì Santo, all’interno delle chiese, vengono allestiti gli Altari della Reposizione nei quali viene riposta l’Eucarestia: questi altari vengono decorati  con vasi al cui interno sono stati piantati dei semi di grano poi germogliati. La visita ai “Sepolcri”, che per consuetudine devono essere visitati in numero dispari, si inserisce in una tradizione documentata a partire dal XV secolo. Comunemente noto come ‘sepolcro’, ‘l’altare’ o ‘cappella della reposizione’ viene allestito al termine della celebrazione del Giovedì Santo, ed è destinato ad accogliere le specie eucaristiche consacrate per conservarle sino al pomeriggio del Venerdì Santo quando, al termine della liturgia penitenziale, verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale. Per comprendere come si articola la liturgia pasquale, bisogna specificare che con Triduo pasquale si intendono le celebrazioni che si svolgono nelle giornate di Venerdì, sabato e nella Domenica di Pasqua: poiché nell’uso antico il giorno aveva inizio al tramonto, ossia al brillare delle prime stelle della sera, deriva che la messa del Giovedì Santo, ossia in “Coena Domini”, che dà avvio al triduo Pasquale e si svolge alla sera guardi liturgicamente già al giorno seguente.

La pratica di allestire gli altari della reposizione si è affermata in Europa già a partire dall’Età carolingia, ed esprime l’idea del lutto e della sepoltura: secondo la fede cristiana Dio è Vivente nell’Eucaristia, ma non si può negare che il passaggio all’Immortalità di Gesù è avvenuto attraverso una morte cruenta, a cui si lega il sepolcro. Questi altari potevano essere allestiti utilizzando anche materiali poveri, quali legno, cartapesta, tessuti combinati a costruire delle scenografie teatrali e poi addobbati. Tra gli addobbi tipici dei sepolcri ricorre l’incenso, le candele e i semi di grano germogliati al buio che simboleggiano il passaggio dalle tenebre della morte alla Resurrezione di Gesù.  Ma quali potrebbero essere le origini storiche dell’addobbare l’altare con germogli di grano? Lo descrive il filosofo di Soverato (CZ) Salvatore Mongiardo, in una nota denominata “Dal grano alla vita eterna” che appunto riscontra questo “rito” in una probabile e suggestiva origine egizia.

Fino a diecimila anni fa circa, – scrive il Professor Mongiardo – l’umanità si nutriva solo di bacche, frutti spontanei e caccia. La caccia era difficile e la raccolta di frutti aleatoria perché le tribù dovevano spostarsi continuamente alla ricerca di cibo. Poi, il riso in Oriente India e il grano in Occidente cambiarono il mondo. Il grano si poteva mangiare già tenero sulla spiga o abbrustolito. E quando seccava, si conservava e si macinava con una pietra: farina, acqua, fuoco e diventava pane in qualunque momento. Secondo gli egizi solo un Dio poteva dare un cibo così buono e nutriente: Osiride, il Dio del sole.

Osiride era morto soffocato in una bara, chiusa a tradimento dal geloso fratello Seth, ma la moglie Iside la cercò, aprì la cassa e vide delle piantine di grano, bianche per la mancanza di luce, che uscivano dal suo corpo: era la nascita del grano. Seth allora fece a pezzi il corpo di Osiride e lo disperse per tutto l’Egitto. Iside li ritrovò, li rimise assieme e fece risorgere Osiride a vita eterna. Anche gli egizi potevano risorgere dalla morte e difatti, nelle feste dedicate a Osiride, essi piantavano chicchi di grano in statuine di fango a forma del Dio, che poi riponevano in un posto buio, il sepolcro Osiride. Da questo deriva la riposizione del corpo di Cristo nel sepolcro, praticata in tutta la Chiesa cattolica ogni Giovedì Santo. Poi, con le piantine spuntate e trapiantate, si otteneva del grano col quale si faceva il pane e si distillava una specie di vino che si assumevano per poter risorgere. Gli egizi avevano già elaborato l’idea che c’era un’anima che non moriva ed era destinata a riunirsi al proprio corpo, come già era successo a Osiride.  

Gli egizi avevano anche costatato che il grano sotterrato moriva e rispuntava, mentre il corpo di un morto sotterrato non risorgeva, marciva. Allora inventarono la mummificazione per preservare il corpo destinato a riunirsi all’anima. Per questo motivo le tombe dei faraoni erano fornite anche di provviste alimentari. Per gli egizi la morte non era la fine, c’era un’altra vita, anche se si svolgeva in un mondo dove Osiride regnava solo sui morti. Un mondo triste, dove il sole di Osiride era nero. Gesù, vissuto in Egitto fuggendo da Erode, venne a contatto con due culture diverse da quella ebraica: quella egizia e quella pitagorica, appresa dai Terapeuti, una comunità ebraica che viveva attorno ad Alessandria.

Vedendo i rituali del grano di Osiride e della mummificazione, Gesù comprese il bisogno di vincere la morte e lo risolse così: Egli è Dio, il pane è il suo corpo e il vino è il suo sangue. Chi mangia la sua carne e beve il suo sangue avrà la vita eterna. Gesù aggiunse però un primo elemento di novità rispetto al rito di Osiride: non aspettò il trapianto e la crescita del grano, ma trasformò il pane sulla tavola nel suo corpo e il vino nel suo sangue. E aggiunse un secondo elemento di novità nella cena pitagorico-essena: la resurrezione. Difatti, nell’Ultima Cena, egli dà il pane e il vino come pegno di vita eterna, mentre nel sissizio italo-pitagorico erano solo simbolo di amicizia e fraternità. E il disco solare di Osiride, che fine ha fatto con Gesù? Sembra scomparso ed è, invece, sotto gli occhi di tutti: è diventato l’ostia della messa, che si leva bianca e rotonda come il sole, adorato al sorgere dai Pitagorici di Crotone.

La storia dimostra ampiamente che attorno al grano si sono sviluppati valori di convivialità, amicizia e superamento della morte. Questi valori sono tuttora rappresentati in Calabria col Sissizio, il Grano Bianco del sepolcro del Giovedì Santo, l’Ostia bianca e rotonda, i mostaccioli di Soriano fatti con farina e miele a forma di animali e il Bue di Pane Pitagorico. Questi valori invitano costantemente verso una vita libera dalle angosce generate dalla violenza e dalla paura della morte“.

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Roberta Martucci
Roberta Martucci
Redattrice e responsabile della pagina Magazine di Cilento Reporter, esperta di marketing, è impegnata da anni a valorizzare le tante eccellenze, e gli eventi del territorio. Giornalista eclettica, vanta diverse collaborazioni con giornali, riviste e televisioni, e da cronista ama raccontare storie di persone, vicende e curiosità. Il suo sguardo del Cilento, terra che definisce “maledettamente bella”, è visibilmente innamorata di tutto ciò che descrive e che tocca le corde dei sensi.

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