Ogni volta che leggo di un cittadino messo sotto processo per aver difeso se stesso, la propria famiglia o i propri beni, un’ondata di rabbia mi assale. Spesso questi processi si svolgono in nome della giustizia, ma ciò che emerge è una distorsione della stessa, dove chi ha il coraggio di difendersi diventa il colpevole. Accuse come quella di omicidio colposo, quando un rapinatore viene ucciso, sembrano quasi un paradosso giuridico. Se un cittadino è in regola con la legge, possiede un porto d’armi e l’arma è legalmente detenuta, allora ha il diritto di proteggere la propria vita e quella dei propri cari. Questo non è solo un principio morale, ma un fondamento della civiltà umana: il diritto alla difesa. Aumenta la mia indignazione quando sento parlare di elementi delle forze dell’ordine messi sotto accusa per aver aperto il fuoco contro criminali in situazioni di emergenza. Non possiamo dimenticare che i militari e i poliziotti sono lì per proteggere la comunità da minacce reali. Se un rapinatore brandisce un’arma e mette in pericolo vite innocenti, quale altra opzione hanno le forze dell’ordine se non quella di intervenire? A differenza di alcuni paesi esteri, dove i poliziotti vengono applauditi e decorati per aver neutralizzato una minaccia, noi ci troviamo a discutere sull’adeguatezza delle loro azioni, come se agire per salvare vite sia un crimine. Prendiamo ad esempio i casi di terrorismo: nei momenti di crisi, ogni secondo può essere decisivo. L’intervento immediato e risoluto delle forze dell’ordine è fondamentale. Nella nostra cultura, sembra esserci una tendenza a criminalizzare la reazione a situazioni estreme, piuttosto che celebrarla.
Ma il concetto di autodifesa rimane intatto. Se mai dovessi trovarmi nella stessa posizione di quei concittadini accusati di aver usato armi per proteggersi, non esiterei a fare lo stesso. Non si tratta di un Far West moderno, ma dell’istinto primordiale di proteggere se stessi. È un impulso talmente radicato nell’animo umano che sarebbe illogico e inumano condannarlo. Viviamo in una società in cui le normative sulla sicurezza e sul porto d’armi sono spesso elaborate in modo tale da garantire la protezione del cittadino, ma, di fatto, finiscono per limitare la sua libertà di difendersi. La legislazione dovrebbe riflettere la realtà che viviamo. La criminalità può assumere molte forme ed essere perpetrata da individui disposti a tutto. In tali contesti, la paura permea le nostre vite quotidiane e la necessità di difendersi diventa un tema centrale. Le norme attuali, lontane dalla logica della protezione, sembrano favorire i criminali piuttosto che le vittime.
La buona notizia è che, recentemente, ho notato una maggiore inclinazione della giustizia a prosciogliere coloro che si trovano costretti a difendersi. Questo è un passo positivo, ma il compito non è ancora terminato. Qualche anno fa, ho vissuto un episodio che ha segnato la mia vita: un tentato furto nella mia casa. Non è stata solo una questione di merce rubata o di danno economico, ma qualcosa di altamente più personale. È difficile esprimere la sensazione di vulnerabilità che si prova quando qualcuno invade il tuo spazio, quando il tuo rifugio sicuro diventa teatro di una violazione intollerabile. Ricordo ancora il momento in cui sono tornato a casa e ho trovato tutto in disordine. I cassetti erano stati aperti e rovesciati, come se un uragano avesse investito le stanze. Scatole scoperchiate qui e là, documenti sparpagliati sul pavimento, oggetti personali messi a soqquadro. Ogni cosa che guardavo sembrava raccontarmi una storia di intrusione, come se ogni piatto fuori posto urlasse il dolore della mia violazione. Quella che era la mia casa, un luogo dove mi sentivo al sicuro, era diventata un campo di battaglia, e io, un intruso nel mio stesso spazio.
C’è una sottile linea tra il possesso materiale e il legame emotivo che instauriamo con le nostre cose. Ogni oggetto in casa mia aveva un significato, una memoria attaccata ad esso. Non si trattava solo di mobilia, vestiti o beni materiali; si trattava di esperienze condivise, di momenti indimenticabili, di sogni e aspirazioni. Trovarmi di fronte a quel caos ha generato in me una sensazione di perdita profonda, come se avessero portato via non solo le mie cose, ma anche la mia sicurezza e serenità. La violazione dello spazio domestico mina la sicurezza personale in modi che vanno ben oltre il semplice furto. Ci si sente esposti, vulnerabili, quasi come se si camminasse su un terreno instabile. Quel giorno, quando ho varcato la soglia di casa, ho visto, o meglio, ho percepito, l’ombra di un estraneo che nel silenzio delle mie quattro mura aveva osato infrangere la mia intimità. Da quel momento in poi, ho iniziato a guardarmi attorno con sospetto, a dubitare di ogni suono, a mettere in discussione la mia tranquillità quotidiana.
L’idea che ci possa essere qualcuno, un estraneo, che potrebbe entrare nella mia vita, tra le mie pareti, ha dato vita a un’inquietudine che non avevo mai provato prima. Ho iniziato a controllare le serrature più volte, a rinforzare porte e finestre, e persino a cambiare le routine. Ogni passo fuori dall’uscio era accompagnato da un pensiero costante: “Cosa succede se qualcuno approfitta della mia assenza?”. Questo stato di allerta, questa continua vigilanza, ha finito per minare la mia serenità mentale. Dopo quell’esperienza, ho percepito un cambio nel modo in cui mi relazionavo con gli altri. Era come se un velo di diffidenza si fosse steso su di me, un barrieramento invisibile che mi isolava. Le mie interazioni hanno cominciato a subire l’influenza di quella ferita invisibile: mi trovavo a guardare le persone con un certo scetticismo, anche quelle più familiari. Ogni nuovo incontro era accompagnato da un’ombra di sospetto, un eco della mia esperienza traumatica.
Ricordo a me stesso che la violenza di un furto va ben oltre il danno materiale. Si tratta di una violazione profonda, che lascia cicatrici invisibili sull’anima. Riprendersi da un tale evento richiede tempo, pazienza e, soprattutto, una volontà di riappropriarsi non solo degli spazi, ma anche delle certezze di cui si è stati privati. Da questa esperienza, ho però capito che, sebbene l’intrusione avesse portato via parte della mia sicurezza, non poteva rubare il mio diritto a sentirsi al sicuro nel mio spazio. Ho iniziato a ripristinare la mia casa, a riorganizzare gli oggetti in modo che potessero raccontare una nuova storia.
Dobbiamo continuare a lottare affinché i diritti dei cittadini siano rispettati e garantiti. La legge deve fornire supporto e protezione a chi si trova in situazioni di emergenza, non alla criminalità. Il nostro Paese non può permettersi di essere un luogo in cui la paura di difendersi prevalga sulla volontà di proteggere le proprie vite e quelle degli altri. Ogni cittadino deve sentirsi al sicuro e avere la certezza che, in caso di pericolo, agirà nel rispetto della legge e della propria incolumità. È tempo di ripensare le leggi e le normative in materia di autodifesa. Solo così potremo costruire una società più giusta e sicura, dove ognuno ha il diritto di vivere senza paura.



