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Dal dialetto del Cilento: “Cernulià”

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Cernulià: verbo del dialetto cilentano, diffuso in più regioni del Mezzogiorno, non traducibile con un vocabolo della lingua italiana. Con lo specifico significato in cui qui lo si analizza, si usa esclusivamente nella forma riflessiva, ossia più precisamente con “cernuliàrsi”, declinabile, ad esempio, nella terza persona singolare del presente indicativo, con “se cernulèja”.

Il suo uso pare limitato a descrivere un aspetto del femminile. Descrive una serie di piccoli o minutissimi movimenti con i quali la donna gestisce, anche improvvisando, il suo aspetto esteriore, sistemando ad esempio l’acconciatura con un tocco della mano, o assestando un particolare dell’abbigliamento, o incipiando la simulazione di un ballare o di un cantare mugugnato, o mediante un incedere ancheggiante o più o meno ondulatorio, o muovendo di spalla, comunque adottando piccoli gesti coordinati e repentini che conferiscono alla figura un effetto visivo dinamico.

Il verbo racchiude, quindi, una serie di mossette e vezzi coordinati, anche elèttrici, e funzionali nel loro insieme ad un’azione estetica di seduzione, studiati sì, ma (non potendo conoscere il sottoscritto cosa possa frullare per la testa di una donna in determinate circostanze), li si direbbe piuttosti ispirati dall’istinto (“é passàta Carmèla ‘nnandi ‘a funèstra r’a casa mia, io la uardàva e chèra tùtta ca se cernuliàva).

Ovviamente, il “cernuliàrsi” si compone di un ampio spettro dentro il quale il “movimento” femminile, con il suo dolce dondolarsi, può essere più o meno sapientemente graduato ed offerto alla visione altrui, potendo trasmodare dalla ostentazione pacchiana ad una più fine eleganza.

Per quanto riguarda l’origine del verbo, il “cernuliàrsi” recupera il transitivo “cernuliare”, l’azione materiale caratterizzata proprio da una serie di piccoli movimenti, piccoli, continuati, coordinati, ondulatori e sussultori, con i quali si adopera il “cernicchio”, il setaccio, per cernere le farine.

Si può presumere che il vocabolo sia sorto, quindi, proprio nel mondo contadino che è sempre capace di cogliere dal quotidiano lavoro le similitudini con cui forgia parole adatte a cogliere, con un guizzo di sintesi geniale, la complessità dell’agire umano e creando così un codice comunicativo d’immediato effetto.

La genialità è data dal traslare nel linguaggio un’intuizione dettata dall’osservazione che altrimenti sarebbe rimasta relegata nel limbo sotterraneo dell’ineffabile e che, recuperata e portata alla luce, è ben capace di esprimere una condotta, un comportamento, un’azione per i quali sarebbe stato necessario ricorrere ad artificiosi giri di parole per rappresentarla compiutamente in una conversazione.

Chi inventò la parola, però, suppongo (con opinione personale) sia stata una donna che, dotata in genere di più profonda perspicacia descrittiva, nell’osservare le movenze di un’altra donna, e forse gelosa delle attenzioni che l’antagonista poteva suscitare, ben pensò di definire quel ciondolare del tutto identico al modo con cui ella stessa adoperava il “cernicchio” di casa.

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