La secolare mancanza di strade nel Cilento e di agevoli vie di comunicazione tra paese e paese, o tra il paese e le frazioni, come pure tra il capoluogo e la campagna circostante, ha favorito una marcata dialettica ed una certa contrapposizione tra il “centro urbano” e le “periferie”, tra il “residente” nel capoluogo o nella città, e l’abitatore delle campagne.
Nelle articolazioni delle forme dell’abitare lo spazio, si inserisce la parola “vatecògna” o meglio “vatecògne”, al plurale. Le “vatecogne” o ” le ‘bbatecogne” (nella versione betacizzata), indicano non solo un complesso indistinto di macchia mediterranea o di selve lungo un costone, ma anche un imprecisato punto dello spazio che si caratterizza per essere oltremodo periferico, impervio, isolato, nel quale sarebbe facile perdersi, e che, anzi, è persino difficile da indicare qualora, per ipotesi, si dovesse segnalare a qualcuno il modo per arrivarci.
La portata socio-culturale del termine emerge dal fatto che questa entità periferica, luogo imprecisato e generico, (“le bbatecògne sotta Sessa o sotta Muntano”), vi ingloba anche le persone e le famiglie che vi abitino o che vi abbiano formato un agglomerato minimo di case o frazioncina. L’abitatore delle “vatecògne”, sia pure per scherzo, viene così indicato come persona rozza, poco avvezza alle abitudini del paese più “civilizzato”. Non è un caso che in alcuni contesti linguistici di paese si usi definire alcune persone burbere con l’epiteto: “ciuccio re vatecògna”.
Non di rado, il termine “vatecògna” riferito ad un interlocutore o a una terza persona, sottintende un discorso di alterità modulabile in questi termini: “io sono del paese o della città, con le sue strade, la chiesa, il municipio, il mercato, e voialtri, invece, siete abitatori di vatecògne, di luoghi isolati, dai sentieri pietrosi e circondati da selve che, anzi, non so nemmeno se abbiano un nome”.