Ad esempio: “Macchè! T’u ddìco io pecchè Francishco ‘a lassàta a Carmela; è pecchè se tenìa a n’ata”, e l’altro: “Rici tu mò!”, oppure “Senza ca facìmo e dicìmo fino a ddimanimatìno, ca tanto chìro nu ‘nge vène cu nnùi!” al che l’altro può rispondere, appunto; “Rici tu mò!”. Si conosce anche la forma reverenziale “riciti vui mo” adoperata nei confronti di colui al quale si rivolge il “voi”.
Costituisce un suggello alla dichiarazione altrui, un modo per accompagnare un’opinione appena ascoltata senza lasciarla cadere nel vuoto sonoro del silenzio. Esprime, quindi, la presa d’atto dinanzi all’asserzione dell’interlocutore, un riscontro con riserva, la fulminea risposta interpretabile con più varianti, con più traduzioni o elaborazioni, o in più sensi.
Sta, cioè, a significare: “potrei anche essere d’accordo con te”, oppure “sai, che mi hai aperto la mente”, oppure “sì, mi hai dato da pensare e forse potresti anche avere ragione tu, ma non ancora”, oppure “questa è, e rimane ancora la tua opinione, diversa dalla mia, ma ne possiamo parlare”.
É un poco il contrario di “jà” con il quale, invece, si liquida l’opinione altrui senza margini di ripensamenti. Con “rici tu mò” si tiene aperta la conversazione, si esprime apertura ad un pensiero contrario, si dichiara un credito verso l’altro, si manifesta un’adesione in divenire, una convergenza critica per quanto ancora nel limbo del dubbio.
Provando a scomporre la perifrasi si può ipotizzare, a ben pensare, questa ricostruzione: il verbo “rici” indica un’opinione qualsiasi, il “tu” sottolinea l’opinione contrapposta alla mia, cioè all’ “io”, e l’avverbio “mò” indica, nella sequenza temporale, che alla fine della discussione si può anche convenire su quella ipotesi.