Non vuole essere una memoria nostalgica dell’autunno nella mia terra, anche perché gli autunni in qualsiasi epoca ed in qualsiasi parte del mondo, sono simili ed hanno in comune una sola e semplice caratteristica, quella di esercitare, in ognuno di noi, credo, il ritorno alla quotidianità. Ma, quello che oggi voglio raccontarvi è ciò che ho vissuto, anche se per solo un attimo in una giornata uggiosa di un sabato pomeriggio in un piccolo borgo del Cilento. Da poco la vampa del sole aveva smesso di bruciare la terra. L’autunno, con un panno imbevuto di acqua fresca, stava per lavare la faccia delle pianure e le alti fronti delle montagne. L’estate, la più scapestrata delle stagioni, se ne è andata a riposare, ormai il sole pigro si alzerà un po’ più tardi ogni mattina e si coricherà un po’ più presto ogni sera.
Da dove sono, guardo l’autunno cilentano, stagione malinconica e dolce, fatta di colori brillanti e cieli tersi e di fumo di legna bruciata. Dopo la pioggia, una nuvola bianca è capace di starsene sospesa fino al tardo pomeriggio, rubando al giorno i suoi toni rossastri e grigi, per poi morire al crepuscolo. Il vento, inizierà a soffiare forte e aspro al mattino, spogliando gli alberi ed affrettandosi ad ammucchiare le foglie secche in mulinanti mucchi d’oro. I contadini, inizieranno ad accumulare le stoppie per bruciarle e nel cuore dei campi le fiamme avanzeranno come file di soldati. La notte diventerà il regno del silenzio, con le stelle civettuole che ammiccano all’eternità, attraverso il tempo. Nelle aiuole dormiranno i fiori morti, certi di risorgere a primavera, mentre gatti con le code arrotolate dormono accovacciati sugli usci delle case come statue di legno scolpiti.
Attraversando il paese, dove case e stretti vicoletti si raccontano , imperterrito e poco intimorito dal freddo pungente, un uomo anziano accende la pipa e l’aroma penetrante è una memoria di altri tempi e di volti più giovani. Quell’incontro fortuito e inaspettato mi ha fatto riflettere tantissimo. Inizialmente mi scambiò per un turista, ma quando capì che ero cilentano, in dialetto esclamò: “che faciti cca?”. Parlammo a lungo, mi raccontò la sua vita e capii il senso di quella domanda. Tutti i suoi nipoti erano andati via da lì per cercare lavoro e lui era l’ultimo rimasto a badare alle poche ed ultime cose rimastegli.
Vi è sicuramente una magia che accomuna quasi tutti i piccoli borghi cilentani: quella di prenderti per mano e farti fare letteralmente un viaggio in un’altra epoca. Attraversare il Cilento in questo modo ed in questi periodi dell’anno, ti lascia dentro moltissime esperienze e ricordi. Percorrere i piccoli centri urbani ti da la possibilità di conoscere persone che vivono in modi e contesti completamente diversi da quelli della grande città.
Piccoli centri dove è naturale vedere in piazza il fratellino che insegna alla sorellina ad andare in bici, o dove puoi sentire per le strade lo stesso odore della salsa preparata da tua mamma, e seguendolo come un segugio arrivi a sbirciare dentro una delle tante cucine “esposte” alla via. Nel frattempo aveva smesso di piovere, e l’aria azzurra è tutta un luccichio di diamanti e ci sono dei piccoli boccioli di rosa che si crocifiggono su di un filo spinato di una vecchia ed arrugginita recinzione che protegge le ultime mele annurche , piccole e agre, pendenti dai rami, timorose di lasciarsi andare.
I nidi di vespe, simili a spugne grigie, rimarranno abbandonati e vuoti nei cespugli di rovi , mentre un bambino, disegnatore freddo e sicuro traccia la geometria dell’ acqua sui davanzali delle finestre. Le case al mare, già da qualche giorno sono sprangate e cieche, l’ospite, a volte indesiderato, sarà solo qualche ragno alla vigilia del lungo sonno bianco, alla ricerca di un luogo sicuro e caldo, lì resterà in attesa degli eventi e di una nuova stagione.