Sostantivo maschile singolare del dialetto cilentano. Ricorre anche nella forma “riccopellòne” (con raddoppio delle L). Sta per ricco, facoltoso, danaroso oltremodo.
Tuttavia, nel dialetto cilentano esso ricorre specie in forma ironica quando si voglia evidenziare la condotta di qualcuno che si sia voluto cimentare in una spesa, in un acquisto, in una donazione o elargizione oltre le sue ordinarie possibilità economiche.
Sarebbe, quindi, l’appellativo per chi – nonostante povero – si sia voluto concedere una smargiassata o la gratuita ostentazione di una inesistente ricchezza quasi in un atto d’arbitrio inconsulto (“Quànno a muglière re Zi Mìnico sapètte quant’avìa spìso ‘u marito a sentiètti ch’alluccàva come ‘na pàccia: àmo fatto a riccopelòne!”, “Nè cò, che màchina ca t’a fatto, se vere ca sì diventato riccopelòne”).
L’uso del termine con questo significato è il riflesso del modo con cui il popolo ha assorbito, rimodulato e trasformato parole e nomi appresi ed ascoltati durante le prediche in chiesa e riportati – distorcendoli – nel linguaggio comune a prescindere dal loro vero significato.
Il “riccopellòne” altri non è che il “ricco Epulone” protagonista della parabola raccontata da Gesù, riportata nel Vangelo secondo Luca, conosciuta anche come “la parabola del ricco e del mendicante Lazzaro”, ove il ricco venne dai commentatori indicato con “epulone” (titolo che indicava l’ordine di quei sacerdoti addetti alla organizzazione dei banchetti in onore delle divinità). Così Epulone divenne sinonimo di ricco, come – a sua volta – “lazzaro” divenne, invece, sinonimo di povero o mendicante.