Il linguaggio consta non solo di parole, ma anche di gesti, mimiche, o cenni idonei a comunicare compiutamente un’idea sia pur minima, uno stato, una condivisione. Il linguaggio del cilentano è ricco di queste forme di comunicazione consistenti in combinazioni di smorfie, mugugni, contrazioni di labbra, rialzo di sopracciglia, con i quali esprimere disaccordi, condivisioni, rafforzamenti, in forma lapidaria e, anzi, con maggior efficacia rispetto alle parole stesse.
Tra queste vi è un cenno repentino del capo all’insù adoperato per dire “no”, o comunque per esprimere un dissenso.
In verità sarebbe un gesto comune anche in altre culture. Il suo contrario sarebbe il “sì” affermativo manifestato abbassando il capo.
La peculiarità di questo gesto nel linguaggio cilentano, però, consiste nell’accompagnarlo ad un accenno di labbra che, unitamente all’azione della lingua sul palato superiore esterno, partorisce un suono leggero da schiocco vagamente scrivibile con “nsu”. Più che parola, è suono insomma, ma ugualmente ricco di “logos”.
Non di rado, questo linguaggio lapidario e sintetico, assorbito, ereditato ed usato come strumento di comunicazione con i suoi limiti gergali, il cilentano pretende magari di adoperarlo con la stessa efficacia anche nei confronti del forestiero, estraneo a questo linguaggio di suoni e di mimiche. Il forestiero lo interpreta, infatti, come un tic o smorfia dinanzi la quale rimane interdetto o in quel silenzio che pare un tentativo di concedersi uno sforzo di interpretazione.
Lo “nzu” cilentano lo conobbe, di passaggio, senza rendersene conto, anche uno dei più grandi intellettuali italiani di ogni tempo. Nel 1959 Pier Paolo Pasolini è a Vallo della Lucania (anzi “Vallo Lucano” secondo la più antica denominazione da lui adoperata). E’ notte, sono le due. Lo scrittore dice di essere stanco morto. L’unica anima viva incontrata è il fornaio nella bottega illuminata che gli indica l’albergo Risorgimento – «un palazzone tutto buio, di nobile, quasi grandiosa architettura» – dove, però, non gli risponde nessuno. Il fornaio allora lo porta ad un’altra locanda ancora: «Il fornaio entra in una porta, lo seguo: mi trovo in un sordido atrio, uno scrittoio, e, accanto, un lettino dove s’è alzato a sedere un vecchio, ancora con la faccia da adolescente, persa nel sonno: tace, soltanto alza la testa, come fanno i cavalli per cacciare le mosche, e con le labbra fa un gesto come baciasse. Dice di no, che non ci cono camere, no, no».
Nella sua disavventura notturna di Vallo Lucano lo scrittore si era imbattuto in quel gesto con il quale il Cilentano suole dire “no”. Alla domanda se ci sarebbe stata disponibile una camera, il vecchio aveva risposto “no” evidentemente proprio con quello “nzu” accompagnato ad un movimento del capo verso l’alto, come la penna dello scrittore ben descrive nella frase: “alza la testa, come fanno i cavalli per cacciare le mosche, e con le labbra fa un gesto come baciasse” (il brano è tratto “La lunga strada di sabbia”, di Pier Paolo Pasolini).