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Maschere del Carnevale nel Cilento

Il periodo compreso tra l’Epifania e la Quaresima si celebra il Carnevale, una festa di origine contadina risalente ai riti tradizionali della stagione invernale. Le maschere del Carnevale sono ampiamente diffuse, ma ciascun territorio ha le sue peculiari caratteristiche. Usanza cilentana, è quella di personificare “carnevale” nel compagno della “quaresima”: in taluni paesi si ha “Carnuvalo” e “Quarajesema”, in altri la figura di  “Carnevale” viene denominata “Vavo”, termine antico indubbiamente riconducibile al latino “avus”, vecchio/anziano, da cui anche lo stesso dialettale “vavo” che identifica la figura del “nonno”.
La figura maschile viene raffigurata “a mo’ di straccione” mentre la “vedova Quarajesema” vestita di nero, magra e spesso reca nelle mani gli antichi strumenti per filare: il fuso e la “cunocchia”. Questa figura si lega all’antico rituale prima greco poi romano, del culto delle “Parche”: tramite la filatura, lo scorrere simboleggia il trascorrere della vita. “Carnuvalo” simboleggia la fine definitiva del vecchio anno mentre “Quarajesema” il nascere del nuovo.

Il punto di unione fra il periodo di carnevale e quello della quaresima è emblematizzato proprio nella figura di queste due personificazioni e non a caso, il periodo dedito al “riso”, per tradizione, si conclude con la morte di “Carnuvale”, cedendo il passo “alla consorte”. Anche qui, ovviamente, si ha un incontro-scontro fra paganesimo è cristianesimo. In passato vari generi di manifestazioni hanno caratterizzato ed animato il Carnevale nel Cilento; alcune esplicavano, per mezzo di rappresentazioni popolari, di farse e commediole, l’animato contrasto tra il Carnevale e la Quaresima, rappresentati spesso da fantocci, dei quali quello rappresentante Carnevale soccombeva alla fine in un’alta fiammata. Questo rito burlesco sta forse a significare la morte dell’inverno: di qui il tripudio di tutti nell’attesa della primavera e dei suoi frutti. Altre manifestazioni rappresentavano la morte di Carnevale, avvenuta per aver ingozzato tante leccornie.
Il fantoccio di Carnevale, assieme alle ghiottonerie che ne avevano provocato la morte, veniva posto su un carretto trainato da un asinello e seguito dalla moglie Quaresima che, in lacrime, piangeva la morte del marito: una rappresentazione che metteva in allegria interi rioni, e che prevedeva la richiesta di un obolo, a cui nessuno mancava acconsentire e di lanciare la propria monetina.

Quasi del tutto estinta è invece l’usanza in alcuni paesi del Cilento di fare la “Quarajesema”, ovvero l’usanza di costruire una bambola di stoffa che ricorda un’anziana e di appenderla alle finestre di casa dopo il passaggio del corteo di carnevale.

C’è tutta una tradizione di filstrocche che ricordano questa usanza:

Quarajesema, secca secca

jeve vennenne ‘e ficusecche
ije le dicette: “Dammene una!”
chella me dette nu cavecio sulo,
ije le dicette: “Dammene anata!”
e chella me dette na zucculata.

Anche in questo caso vi è un netto richiamo alla mitologia. Questa sorta di “feticcio” reca le stesse caratteristiche della maschera descritta per la “Quarajesema”, con la sola e significativa differenza di recare sulla schiena un’arancia con sette penne di galline che vengono poi tolte una per ogni Venerdì fino alla Pasqua e bruciate: si richiamano i simboli e i misteri della morte e della vita.

Il Carnevale nei paesi del Cilento è una festa arcaica non paragonabile alle sfilate di maschere e carri cittadini; è un Carnevale povero, in cui ci si maschera, in assoluta segretezza, con vestiti raccogliticci, inventando tipi e maschere che non hanno riscontro nella tradizione italiana. Durante la sfilata nella piazza del paese, le maschere si abbandonano a giochi e scherzi improvvisati, che coinvolgevano anche gli spettatori e che erano consentiti unicamente dalla loro non riconoscibilità.

a cura di Antonio De Lisa

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