“abbo“, sostantivo maschile del dialetto cilentano, diffuso nel meridione d’Italia con diverse sfumature. E’ traducibile come “scherno”, “burla”, “dispetto”. Si usa spesso associato al verbo fare: “che me fai abbo!”, “me facìa abbo re fràtito”. Viene adoperato specie quando lo scherno o la burla sono messi in atto con una smorfia o una deformazione facciale con la quale si prova ad imitare in forma di caricatura un modo di parlare, una postura, o anche un lievissimo difetto fisico di qualcuno conosciuto. In questo caso, l “abbo” descrive una condotta dove lo sberleffo viene manifestato con una mimica impostata a derisione.
Fa “abbo” chi riproduce, con tono accentuato e deformato, una frase o una parola o un intercalare o un tic altrui, magari alterando il timbro di una voce volutamente imitata con un tono quequero o di starnazzo o assumendo un innaturale falsetto.
L’ “abbo” si esprime, quindi, associato ad una distorsione di labbra o ad una comica postura del volto per quel tanto che si possa capire che si sta parlando proprio di quel tale, o quella tale, dato che spesso il destinatario della derisione è persona conosciuta all’interlocutore. Proprio nella carica con cui si deformano il timbro o il tono altrui, e nella capacità di suscitare comicità, consiste l’efficacia di derisione.
“Face abbo” anche chi ritiene di assumere più semplicemente una posizione critica a prescindere da una condotta di deformazione caricaturale, assumendo di poter sostenere una tale posizione critica collocandosi in posizione di superiorità morale rispetto al destinatario della critica “Face abbo” chi semplicemente si prender gioco di un altro mettendone in evidenza vizi, debolezze, incoerenze, altri difetti più o meno lievi, sparlandone e sventolandone atteggiamenti da balordo oppure scelte di vita biasimevoli.
Bisogna sottolineare, però, che la parola “abbo”, quando indica una esternazione critica di biasimo o derisione verso un altro, si usa soprattutto quando si vuole indicare un fenomeno di “ritorno” sull’autore stesso dell’ “abbo”, con un effetto boomerang. In sostanza, se è facile la postura di chi ” se face abbo re l’ati”, è altrettanto facile che sia l’autore dell’ “abbo” a trovarsi nella posizione di chi aveva criticato: “Zi Ntonio a perso a capo ppé na zoria e ‘a lassato a mugliere cu i figli, e se facìa tanto abbo r’u nepote ca senn’era scappato ccu la badante r’a nonna”.
La cultura cilentana assume una posizione di vaga condanna verso chi si cimenti con facilità nel deridere o biasimare condotte altrui, e mette in guardia da simili atteggiamenti burleschi, scorgendovi un’occasione per istigare il destino a fare dei percorsi proprio contro chi abbia usato l’ “abbo” verso gli altri. Non è un caso quel proverbio cilentano che dice: “la jastema nun coglie, ma lu abbo torna”, traducibile più o meno così: “il desiderare il male di qualcuno non sarà esaudito, mentre il prendersi gioco degli altri ritornerà su sé stesso” (questo proverbio è presente anche nel dialetto siciliano: “u jabbu arriba, a jastima no”).
Per l’etimo non ci sono certezze. Il termine più simile che si trova nell’italiano è quello che richiama il “gabbare” o “gabbarsi” dove sta proprio per burlarsi. Secondo alcuni vecchi vocabolari dialettali, la parola siciliana “jabbu” (corrispondente al nostro “abbo”) sarebbe derivata dall’arabo, ma senza che la tesi trovasse riscontri. Secondo una tesi rinvenuta sul web, è da scartare l’origine araba, essendo invece significativo che nell’antico germanico – dal quale le lingue romanze presero molti termini – fosse presente la parola “jab” ad indicare la “bocca”. Sarebbe probabile piuttosto un’origine dal catalano.