Cilento terra ricca di storie e di tempo , le cui campane scandiscono il ritmo delle narrazioni intorno a focolari che rischiarano le tenebre di quelle lunghe notti e che tramandano biografie e ritratti di uomini e cacciatori di lupi, pionieri dell’ultima frontiera i cui fantasmi appaiono e scompaiono tra le torri di fumo della memoria e del mito. Il luparo, cavaliere della civiltà contadina a cui il pastore affidava una missione salvifica, l’uccisione della bestia e la salvaguardia degli armenti, eroe che riceveva gli onori della battaglia esibendo nella piazza del villaggio il corpo esanime dell’animale celebrando il dominio dell’uomo e dell’audacia sulla ferocia della bestia.
Da sempre, i nativi Cilentani, hanno lavorato come pastori, boscaioli, mulattieri ma anche Lupari. Sui monti, l’ardua lotta per la sopravvivenza ingaggiata tra pastori e lupi deve conoscere radici tanto antiche da potersi, senz’altro, definire remote. Dall’alto di palchi di legno, appositamente elevati, i “lupari” d’un tempo facevano fuoco sui lupi, dopo averli astutamente attratti con carogne, appese, per le zampe, a pali ed alberi, o accatastate, alla rinfusa, sul terreno. Il Lupo era visto spesso come una sorta di entità demoniaca, tanto che per difendersi dai suoi attacchi venivano officiate, da prelati, cerimonie di maledizione della belva e benedizioni delle greggi.
Queste pratiche non portavano comunque all’effetto sperato, così andò intensificandosi una persecuzione diretta, con talvolta l’ausilio di cacciatori professionisti, assoldati tra gli abitanti del paese o dei borghi vicini. Ogni mezzo era utilizzato, dai fucili alle tagliole alle trappole con il laccio. C’è un’ampia documentazione della fine dell’800 riguardo ai premi per l’uccisione dei lupi, fissati con decreto in tutti gli stati preunitari della penisola prima e nel Regno d’Italia poi: il premio veniva corrisposto, in cifra decrescente, innanzitutto a chi uccideva una lupa gravida, poi a chi uccideva una lupa non gravida, quindi a chi abbatteva un lupo e poi a chi catturava un cucciolo. L’effetto di questa accanita persecuzione si fece sentire, tanto che nel primo ventennio del 1900 la specie si era rarefatta scomparendo da vaste aree come presenza stabile. Poi, dopo gli anni ’50, la figura del luparo scomparve e oggi ci resta solo il ricordo, che magari può turbare l’attuale sensibilità ecologista, anche se indubbiamente le vicende del passato non possono essere giudicate alla luce del presente, ma vanno invece contestualizzate e lette nel quadro della dura realtà di quei tempi.
Ed è stato piacevole e culturalmente interessante leggere uno scritto sulle memorie di un luparo, Carmelo Nigro di Piaggine, che nel resoconto che segue viene ampiamente commemorato da Giovanni Maio (Presidente UNARC) nell’articolo pubblicato sul sito “Balla coi lupi project”.Ricordo sempre con grande “meraviglia” gli occhi sempre vispi e pieni di luce di Carmelo Nigro, che tutti, nel piccolo paese di Piaggine (alle falde del Monte Cervati), chiamavano affettuosamente “Zì Carmelo”.
E’ morto nella sua Piaggine alla veneranda età di 102 anni.
Cacciatore di lupi “per professione”, Carmelo Nigro ha sempre vissuto a Piaggine, nel cuore del Parco Nazionale del Cilento, insieme ai suoi tre figli e ai tanti nipoti e pronipoti.
Fino a cinquant’anni fa, in quei luoghi, il mestiere di Luparo era di vitale importanza per i tanti allevatori di pecore e buoi della zona. Spettava infatti al “luparo” stanare e uccidere i lupi che, soprattutto nella stagione invernale, dai boschi del monte Cervati si spingevano fino a valle, dove si cibavano del bestiame. Per dimostrare di essere riuscito nell’impresa, Zi’ Carmelo andava in giro con indosso un singolare vestito: la pelle del lupo ucciso, inclusa la testa. Così facendo, poteva riscuotere la ricompensa messa a disposizione dalle autorità comunali, alla quale si aggiungevano le numerose regalie di pastori ed allevatori, di solito costituite da olio d’oliva e prodotti delle fattorie.
Storie di altri tempi, uomini affascinanti e mestieri scomparsi.
“La caccia e i lupi sono gli unici argomenti che l’hanno appassionato fino ad ieri”, raccontano i familiari. Nei dintorni del monte Cervati, la vetta più alta della regione, tra mandrie di vacche e greggi di pecore, c’era uno dei più consistenti patrimoni zootecnici del Sud. Trentamila pecore, migliaia di mucche allo stato brado, una miniera d’oro in lana ed agnelli che rendeva ricchi i numerosi comuni sparsi alle falde del grande Cervati. E mille floridi scambi commerciali resi possibili grazie alle lunghe transumanze che attraversavano la sottostante Piana del Sele; e poi la Lucania, fino a Metaponto. Il lupo era il nemico per antonomasia. Lo odiavano perchè sbranava pecore e vitelli, faceva il vuoto nelle greggi e nelle mandrie, spaventava la gente.
“Io il luparo l’ho fatto fino a che c’è stata la necessità. Non sono stato io – raccontava – a sterminare i lupi del Cilento. La colpa è di coloro che hanno distrutto i Frainali (chiamava così il bosco più fitto, quello con i giganteschi faggi di montagna). E continuava: “A danneggiare il lupo sono stati più quelli che tagliarono il grande bosco di Mèrcuri e si presero l’acqua del “Calore” (il fiume che nasce sul Cervati) per l’acquedotto, per captare l’acqua e portarla lontano, nella piana di Agropoli”.
Oltre alla tecnica dell’appostamento ed all’uso di lacci e tagliole – che non mancavano di azzoppare anche qualche pecora sventurata – nel periodo fra aprile e luglio Zì Carmelo visitava i siti più inaccessibili e nascosti della montagna; anfratti che soltanto lui ben conosceva, dove il lupo era solito scavare la sua tana per partorire i suoi piccoli. Carmelo il luparo non prelevava mai più di uno o al massimo due cuccioli dalle tane dei lupi, evitando accuratamente di compiere inutili razzie; in fondo, doveva pur preservare il suo “lavoro” futuro…! Zì Carmelo mi raccontava che era solito portare i cuccioli di lupo a Don Luca Petraglia, canonico del Santuario della Madonna del Monte di Novi.
“…Li portavo io i cuccioli. Lui poi li allevava e tentava di addomesticarli, ma con scarsi risultati. Sì, proprio lui: quel Don Luca, che è stato il fondatore dell’ ospedale di Vallo della Lucania.”
All’epoca, poi, c’era chi i lupi li mangiava.
Il medico Gennaro Vairo ne era particolarmente ghiotto. Il corpo del lupo catturato e ucciso finiva dunque nella pancia del Dottore? Certamente la pelle no; infatti, posizionata e legata su una lunga pertica, o letteralmente “indossata” da Zì Carmelo, la pelle del lupo veniva mostrata in tutte le case del paese. All’ invocazione di “Pé santu Suluviestr” (San Silvestro è il protettore degli allevatori), ognuno faceva la sua offerta a Carmelo Nigro. Al coraggioso luparo, che aveva ammazzato il nemico giurato delle mandrie e degli armenti, come detto andavano soprattutto offerte in natura: olio e formaggi, innanzi tutto. E lui li commerciava.
Mentre mi raccontava delle sue gesta giovanili, i suoi occhi accarezzavano continuamente le cime delle montagne che si intravvedevano dalla finestra della sua vecchia casa; e lui mi parlava del suo grande rispetto verso il “sacro animale” che, letteralmente, gli aveva dato da vivere fino agli anni sessanta. Zì Carmelo era molto orgoglioso della sua vecchia attività.
Aveva cominciato a fare “il luparo” intorno alla metà degli anni venti e questa, da allora, era diventata la sua attività principale.
Prima di quel tempo, ad occuparsi del “problema lupo” sulle nostre montagne erano i più esperti lupari abruzzesi, spesso ingaggiati all’uopo dai numerosi allevatori di bestiame del Cervati. Ma nessuno conosceva la Montagna come Zì Carmelo il luparo.
Quando negli anni ’40 fu proibita la caccia effettuata con la micidiale tagliola in ferro battuto che triturava gli arti del malcapitato lupo, lui passò alla cattura con il laccio. Vi aggiunse però la tecnica del falso percorso: in prossimità dei luoghi più frequentati dall’animale il luparo piantava rami di faggio a mò di alberelli che correvano paralleli, creando una specie di passaggio obbligato che ingannava il lupo, conducendolo dritto nella trappola.
E, come ho già detto, un’ altra tecnica perfezionata da Zì Carmelo era quella della riduzione controllata delle nidiate. “…Nel mese di maggio e fino al 15 giugno andavo a cercare nelle tane i lupacchiotti appena nati e li regalavo agli amici, che provavano ad allevarli. L’ esperimento finiva quasi sempre male perché il lupo non è il cane. Non si fa addomesticare e soffre la cattività tanto da distruggere tutto quello che gli viene a tiro, se ne ha l’occasione, o a lasciarsi morire di fame”.
Storie del passato? No.
Qui l’allarme lupi risuona ancora. Gli allevatori, quei pochi che ancora restano in attività, tengono però ben celata la notizia. Temono per i nuovi vincoli che potrebbero arrivare dal Parco del Cilento.
“Hanno ucciso dei vitelli in montagna”, sussurrano a mezza bocca nei bar. I lupi sono tornati. Tempo fa un cucciolo, assetato, rimase incastrato in un pozzo. Per salvarlo si mobilitarono volontari, comune e forestale. Ora l’animale che ha incantato, per la sua raffinata intelligenza, etologi, registi e scrittori, va protetto e tutelato e, chissà, forse un domani non troppo lontano potrebbe addirittura diventare un fattore di richiamo turistico per i gitanti della domenica che, sempre più numerosi, si aggirano sul Cervati.
Credits: La storia e la foto del “Luparo”, sono tratte da “L’ultimo luparo del Cilento” di Giovanni Maio