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“N’giarmà” nel dialetto del Cilento

‘ngiarmà, verbo del dialetto cilentano, diffuso, in verità, in altre regioni del Meridione d’Italia. Conosce anche il corrispondente sostantivo maschile «’ngiàrmo». Contiene uno spettro di più significati nei vari dialetti.

Nel dialetto cilentano lo «’ngiarmàre» o «’ngiàrmo» indicano un’azione, o piuttosto una serie di azioni, coordinate e più o meno complesse, per lo più occulte, mirate ad un obiettivo, ad un disegno, alla soluzione di un problema, ma pur sempre in un contesto (ed è questo il tratto caratterizzante e peculiare di tale termine) nel quale il risultato è, e rimane, comunque affidato ad un artificio, legato ad un fondamento fallace, debole per quanto, in pratica, capace di reggere alla prova dei fatti e non rivelare all’esterno alcuna criticità (in questo caso tutto dipenderebbe dalla qualità dello ‘ngiàrmo).


Lo «’ngiarmàre» rappresenta, quindi, un’operazione di intessitura, un ordire, un armare, un legare fili, il tessere un mosaico che si mostra degno di assurgere a soluzione che rischia di crollare e rivelarsi per quel che è essendo il frutto di un incantesimo, di un’abile macchinazione, («tanto ‘ngiarmaò ca cu’ quatto aulìve sàccio quanta soldi se pigliào come premio ppe’ l’uòglio»; «cu’ nu ‘ngiàrmo se facètte passà ppe’ ppàccio ppe’ se piglià l’accompagnamento»; «era ‘gnorànte come ‘na cràpa, ma tanto ‘ngiarmào ca trasètte ìndo ‘a scòla come prussòre r’italiàno, e pùro re ruòlo!»).

L’oggetto o l’opera ‘ngiarmàta può manifestarsi pure apprezzabile, può persuadere sulla sua intrinseca bontà, almeno in superficie. Colui che ‘ngiàrma possiede doti diplomatiche, di persuasione e specifiche attitudini di assemblaggio per quanto arrangiato per rispondere ad una impellenza (o almeno ci prova), si rivela tenace nei suoi tentativi, tanto da riuscire a coagulare un programma, un risultato sia pur tenuto in piedi mediante un gioco di ipocrisie reciproche (« tanto facètte, ca pùro ‘ngiarmào ‘na lista re quàtto scauzacàni e se presentàò a sìnnico»).
Risiede nell’etimologia, tuttavia, la traccia del suo intrinseco e recondito significato.


Nel “Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano”, di Ferdinando Galiani, Francesco Mazzarella Farao, edito a Napoli nel 1789, è contenuta la descrizione – per certi versi “vichiana” – di una origine che affonda radici in un’epoca in cui alcuni uomini, particolarmente abili nel fischio, riuscivano a richiamare i serpenti, e poiché questi uomini accompagnavano il fischio con alcune cantilene, si credette che fossero le sole parole a fungere da incantesimo magico. In realtà, si trattava di una impostura in quanto non le parole, ma il solo fischio era l’unico e vero espediente di richiamo per quei serpenti ghiotti di uccelli e per questo facili ad essere incantati non appena ne sentissero il canto.

Da questa maniera di chiamare i serpi con i canti sono venute le parole “incantare” e “incantesimo”». Poichè l’istinto dell’uomo portava ad accompagnare le cantilene con i versi, ecco allora venire in gioco – nella spiegazione dell’etimo di «inciarmàre »- la parola «carme». Infatti, presso i Latini «carmen» non indicava solo la misura dei versi, ma anche la musica che li accompagnava, finendo così con l’inglobare nel «carme» tutto quanto fosse magia, incantesimo, ma che fosse e rimanesse comunque sostanzialmente un’impostura.

Furono i Francesi ad adattare il «carmen» latino per farne derivare la parola «charme» che, in origine, indicava proprio l’incantesimo magico, ma che poi ha finito per «esprimere quel vero, grande, e terribile incantesimo che fanno le donne agli uomini co’ loro vezzi, ed allettamenti» (secondo la definizione, marcatamente misogina in verità, dei compilatori napoletani del suddetto vocabolario).


La lunga dominazione francese avrebbe, quindi, dato alla lingua dialettale la parola «inciarmàre» come derivata da «charme» o «encharmer» nel senso di «incantesimo» e «incantare», anche se, a sua volta, la parola «charme» mutuava dal latino «carmen». Complessivamente, quindi, lo «’ngiarmàre» o «’ngiàrmo» indica ciò che è inganno, impostura, ciarlataneria, imbroglio. Tale connotazione, negativa in verità, pare essersi conservata nell’uso di tale parola almeno nel dialetto cilentano, che – evidentemente – lo ha mutuato dal napoletano.

Significativo è che in alcune culture popolari lo ‘ngiàrmo conservi la connotazione di canto, come – ad esempio – nell’avellinese dove lo “ngiàrmo” indica la serenata che il promesso sposo ingaggia sotto la casa della sposa. La connotazione magica, invece, è conservata in quelle culture dove lo “ngiàrmo” sta per unguento o medicamento miracoloso, o addirittura come “esorcismo”.

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