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Cosa è l'”Attàsso” nel dialetto Cilentano

Sostantivo maschile singolare del dialetto cilentano. Conosce anche l’omologa forma verbale “attassà”.
L’ “attàsso” è la condizione fisica e materiale di chi rimane impietrito, di stucco, perlopiù a causa del freddo e del gelo improvvisi o per un vento particolarmente sferzante (“Com’assiètti ra la casa, accussì attassàì tanto r’u chiàtro e u’ viendo ca menàva”).

La parola indica, per similitudine, anche una condizione psicomotoria di turbamento e stupore, brusca, improvvisa, inattesa, talmente intensa da determinare nella persona un’immobilità temporanea nell’eloquio e nella conversazione, un silenzio indotto che è indice di uno sprofondo dell’intelletto che per qualche istante non riesce


ad elaborare una spiegazione, una ricostruzione plausibile a sé stesso, o che risponda ai propri ed interiori canoni di giustizia, di ordine, di regole.

L’ “attàsso” può anche essere preceduto, da parte di chi ne sia colpito, da un istintivo tentativo di reazione che naufraga miseramente, però, in un incespicare del linguaggio che null’altro riesce ad elaborare se non un paio di confuse sillabe di un termine indecifrabile, dopodiché la lucida presa d’atto di quella situazione spiacevole dilaga, fulminea, nell’organismo con effetto destabilizzante, fino a conquistare i sensi, il cuore, lo stomaco, il cervello.

L’ “attàsso” si manifesta con una brusca contrazione di muscoli facciali, una fissità di sguardo e – non di rado – con un atteggiarsi della labbra in una posizione di semi-chiusura o con un deglutire da contraccolpo, o con uno sbiancamento nel viso indotto da un’alterazione della circolazione che fa affluire il sangue in soccorso del cuore in affanno, raggelato anch’esso da una notizia appena appresa.
L’ “attàsso” spesso si manifesta senza che colui che lo subisca se ne renda conto.

Chi lo subisce cerca, anzi, di non darlo a vedere, abbozza o simula una situazione di normalità; è piuttosto l’interlocutore che lo riscontra con l’abilità di percepire quel linguaggio muto fatto di mimiche, di segnali di sopracciglia, sbarramento d’occhi, modulazioni di labbra.

Esempi di frasi con la parola “attàsso” o “attassàre” riferita ad una condizione psicomotoria: “quànno reciètti a Nicòla ca Carmèla, ca ng’avìa fatto u’ sentimiento ppè dui anni, se ‘nzuràva u’ mèse chi trasìa, attassào”. Oppure: “Re pigliào n’attàsso quanno re diciètti ca Ntònio re parlava malamènte ra rèto”.
In alcuni testi di sociologia, frutto di indagine in Lucania, la parola “attassamento” indica specificamente la condizione di ebetudine e di torpore temporaneo derivante dalla morte improvvisa di un congiunto.


L’attassàto rimane a volte in una condizione di inconsapevolezza che può durare un quarto d’ora o anche mezza giornata, prima che il soggetto si svegli e si dia a lamenti sonori (da “Sud e magia” di Ernesto De Martino).

Per quanto riguarda l’etimo, in un vecchio vocabolario del dialetto napoletano del 1789, a cura dell’Accademia dei Filopatridi, l’ “attassàre”, tradotto con “arrestarsi”, “spaventare”, “far gelare il sangue”, viene fatto derivare dalla voce spagnola “atajar” adoperata più o meno con lo stesso significato. Nello stesso vocabolario si legge anche la voce “attassàto”, tradotta con “stupefatto”, e che indicherebbe le “uova mezzocotte” o altre vivande simili, o anche le “pentole che cessano di bollire, per mancanza di fuoco o per acqua fredda rifusaci”.

Vi si accenna anche, tra i possibili etimi, il riferimento alle proprietà del tasso, l’erba conosciuta per generare un potente veleno che induce ad un torpore e , per queste capacità utilizzato nella pesca: buttato nell’acqua il veleno agisce con effetti soporiferi sui pesci che in tal modo possono essere facilmente pescati. Anche i romani utilizzavano il veleno del tasso per realizzare frecce mortali.
Si può ipotizzare anche una derivazione dal greco “tàsso” (θάσσω) che sta per “sto seduto” “inoperoso” che evoca una condizione di immobilità.

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